Quasi quasi si prova nostalgia per la vecchia RAI di Ettore Bernabei, il potente direttore della televisione italiana tra il 1961 e il 1974. Erano tempi in cui anche la nostra TV di Stato perseguiva obiettivi educativi. Certo, non mancavano le trasmissioni che tendevano alla perpetuazione del potere politico. Ma la televisione faceva anche altro: come dimenticare, ad esempio, il popolare maestro Alberto Manzi, che, con Non è mai troppo tardi , alfabetizzò centinaia di migliaia di italiani, sera dopo sera, dal 1960 al 1968? O come scordare La TV dei ragazzi , che accanto a film, telefilm e programmi di intrattenimento (avete in mente Topo Gigio, Lassie, Lancillotto?), mandava in onda emissioni dal chiaro intento pedagogico quali i documentari, il cinegiornale per ragazzi o altre emissioni dal contenuto chiaramente istruttivo ( L’amico degli animali , per dirne uno)? Poi, occorre pur dirlo, c’erano le derive bacchettone, come la censura a Abbe Lane, la femme fatale, o quella del cantante Luciano Tajoli, che non potè calcare gli studi RAI e il Festival di San Remo a causa del suo «poco essere telegenico» (era zoppo a causa della poliomelite). Insomma: una televisione ipocrita e perbenista, che, negli anni del ’68 e dintorni, fu fatta a pezzettini.
Poi proruppero sugli schermi italofoni Silvio Berlusconi e le emittenti di Mediaset, con rapido adeguamento delle TV di Stato, compresa la nostra RSI. Nel breve scorrere d’uno sbatter di palpebre siamo passati dalla TV pedagogica e un po’ austera al panem et circenses che, è proprio il caso di dirlo, è sotto gli occhi di tutti. Anche trasmissioni insospettabili, come ad esempio Quark di Piero Angela, si sono adeguate e oggi non approfondiscono più nulla, preferendo affastellare mille argomenti uno sull’altro, seppur con linguaggio almeno superficialmente erudito. In fin dei conti siamo all’enciclopedismo a coriandoli, che non si capisce a chi possa giovare e cosa possa mai avere di pedagogico e istruttivo: alla faccia del servizio pubblico. Quelle sì, sono bieche nozioni, spesso pure incomprensibili nel loro senso profondo.
Il problema non esisterebbe se non sapessimo che la gente di ogni età segue regolarmente i programmi TV e ne resta influenzato. Ha scritto Karl R. Popper, il teorico della società aperta, che chi produce televisione deve rendersi conto, gli piaccia o no, di essere «in un tipo di educazione che è terribilmente potente e importante». Popper era preoccupato del degrado televisivo, dovuto in gran parte all’esplosione quantitativa dei canali e delle reti. «Il livello è sceso perché le stazioni televisive, per mantenere la loro audience, dovevano produrre sempre più materia scadente e sensazionale. Il punto essenziale», proseguiva il filosofo, «è che difficilmente la materia sensazionale è anche buona». A ciò si è aggiunto un disinvolto concetto di democrazia, secondo cui bisogna dare al pubblico ciò che si aspetta, dimenticando una condizione inderogabile della democrazia e dello stato di diritto, che risiede proprio nell’istruzione e nella cultura. È un po’ il gatto che si morde la coda, dal momento che il decadimento della cultura e quello della televisione procedono di pari passo, su binari paralleli, alimentandosi a vicenda con una certa smania. Ma perché la scuola non cerca di tirarsi fuori da questa lotta al massacro culturale, da questa continua istigazione delle pulsioni al consumo immediato? Perché si continua a inserire nei programmi scolastici «di tutto e di più»? Ha scritto il pedagogista Philippe Meirieu (Le Monde del 2 settembre scorso): «Al punto in cui siamo, è essenziale progettare una scuola che sia deliberatamente un luogo di decelerazione, uno spazio ove costruire il pensiero e sperimentare il lavoro collettivo e solidale». Resta la responsabilità dei produttori televisivi e di chi sarebbe tenuto a controllarli: che, tuttavia, sono più o meno i medesimi che controllano la nostra scuola.
Articolo Corriere del Ticino, Fuori dall’aula, 27 settembre 2011
di Adolfo Tomasini