Il brusco congedo dell’oramai ex direttrice del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI Nicole Rege Colet costituisce lo sbocco di una crisi che andava maturando da tempo in seno all’istituto. In parte indubbiamente imputabile ad uno stile di conduzione eccessivamente rigido e intransigente, che ha accentuato i conflitti personali, provocando negli ultimi tempi una serie di dimissioni illustri, troppo numerose per essere spiegate semplicemente come casi individuali. L’ultimo braccio di ferro con i colleghi dell’organo direttivo, paradossalmente scaturito proprio da un tentativo di ricreare un ambiente sereno in seno al team, non ha lasciato alternative al Consiglio della SUPSI, che ha dovuto congedare la direttrice. A malincuore, poiché sull’alto grado di competenza scientifica e sul notevole impegno di quest’ultima nessuno aveva da ridire. Anzi, ai vertici della Scuola universitaria professionale, a cominciare dal presidente Alberto Cotti e dal direttore Franco Gervasoni, sono tutti consapevoli del fatto che sostituire Rege Colet con una personalità di pari livello non sarà per nulla facile. Ma proprio in questa prospettiva sarebbe riduttivo ricondurre questo episodio solo a questioni di carattere e di stile nella conduzione. Se il clima interno, come sottolineava il comunicato della SUPSI, si è tanto deteriorato al DFA, è anche perché i conflitti personali con la ex direttrice hanno fatto da catalizzatore a tensioni che vengono da lontano. Dai tempi in cui l’istituto era ancora Scuola magistrale ed era stato la culla della contestazione sessantottina e postsessantottina in Ticino. Lì in particolare è germogliata e si è poi radicata quella cultura assemblearistica e rivendicativa che ancora oggi si manifesta, assumendo a volte sfumature di lotta sindacale. A questa cultura sono da ricondurre le radici di una certa concezione della «partecipazione» in chiave di rappresentanza politica in seno alle strutture direttive, piuttosto che nella chiave più moderna di costruzione comune e condivisa di strutture e percorsi volti a migliorare la qualità dell’istituto e della formazione che impartisce. Significativo, in proposito, il fatto che organi collegiali e partecipativi analoghi esistono e operano anche in altri dipartimenti della SUPSI, senza per questo generare i conflitti conosciuti dal DFA.
Ma c’è anche un altro aspetto. La transizione dall’antica Magistrale all’Alta scuola pedagogica e quindi al DFA e il passaggio, con quest’ultima fase, dalla conduzione diretta da parte del DECS all’integrazione nella SUPSI ha generato una lunga serie di attriti – nel senso fisico del termine – che ancora non sono esauriti. Per certi versi era prevedibile e inevitabile. In passato il DECS, con i suoi apparati, aveva un controllo diretto sulla «fabbrica dei docenti». I quali, una volta diplomati, ritornano oggi come ieri sotto la sua area di competenza, come non manca di sottolineare sovente l’attuale consigliere di Stato e direttore Manuele Bertoli. Si può quindi comprendere che il trapasso alla SUPSI, con il suo statuto universitario, la sua cultura aziendale, la sua autonomia svincolata da certe logiche politico-burocratiche, possa non essere completamente accettato nei corridoi di Palazzo. O in certi gremi partitico-sindacali, che potrebbero vedere nella crisi odierna l’opportunità di aumentare la propria influenza, sfruttando magari canali paralleli e disponibilità all’ascolto al di fuori delle regole dettate dai corretti ruoli istituzionali.
Il Consiglio della SUPSI, in questo senso, ha dato un segnale forte e chiaro, che non può essere frainteso. Ha proceduto alla rimozione dell’ex direttrice ritenendo che il suo stile costituisse un ostacolo oramai insormontabile per l’operatività del DFA. Ma ha anche messo in chiaro che l’impostazione e gli obiettivi di sviluppo del Dipartimento, oggi struttura della SUPSI a tutti gli effetti, rimangono invariati, senza possibiltà di passi indietro o deviazioni dagli indirizzi stabiliti. In questo senso l’esplicita disponibilità alla collaborazione con la direzione interinaria data dai due copresidenti del Collegio di Dipartimento costituisce un segnale incoraggiante.
Se il clima di lavoro effettivamente si farà più sereno; se da parte di tutte le componenti si affronteranno i problemi in modo costruttivo; se dall’esterno non vi saranno più sollecitazioni ambigue e inopportune, dettate da motivazioni e interessi non sempre cristallini; se infine e questa è probabilmente la parte più dificile – potrà essere individuata una personalità valida e riconosciuta, in grado di assicurare una conduzione ferma ma aperta al dialogo e nel contempo partecipativa senza diventare ostaggio di nessuno, allora si potrà finalmente guardare al futuro del DFA con fiducia. Le condizioni sono diverse e non facili da riunire. Ma non ci sono alternative a quella di raccogliere la sfida e affrontarla.
Articolo Corriere del Ticino, 7 novembre 2011
di Giancarlo Dillena, Direttore