Nel giorno in cui il DECS rende noti i dati intermedi del collocamento a tirocinio dei nuovi apprendisti (cfr. pagina Cantone) mi è tornato in mente un mio vecchio professore universitario, che accoglieva gli studenti del primo anno con questa provocazione: «Perché siete qui? Perché continuare gli studi vuol dire restare all’interno di un mondo che conoscete, quello scolastico. Fuori è molto più dura. Per questo cercate di ritardare il più possibile l’uscita». E aggiungeva, con pungente autoironia: «Ma non siete i peggiori. I peggiori siamo noi insegnanti, che siamo entrati nel sistema a tre anni e a sessanta non riusciamo ancora ad uscirne». Credo che un po’ avesse ragione. Ma credo anche che la ragione principale che ci aveva portato lì era, per dirla con una espressione abusata, «la speranza di una vita migliore». La stessa che spinge oggi una massa di giovani, con alle spalle le loro famiglie, a puntare sulla via degli studî, nonostante quel che si sente (e si vede) sulle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro incontrate da molti laureati. Una scelta che avviene spesso in contrapposizione all’altra via maestra, quella della formazione professionale, che da troppi viene ancora considerata una sorta di via a fondo cieco, riservata a chi è «meno bravo» a scuola. Che storicamente possa essere stato così e che la cosiddetta «democratizzazione degli studi» abbia indirettamente accentuato questa percezione è un fatto. Che resista a tutt’oggi nei termini di mezzo secolo fa è a dir poco discutibile. E soprattutto fonte di problemi. È discutibile perché il sistema ha conosciuto un’importante evoluzione anche per chi «impara un mestiere», con la maturità professionale e le scuole universitarie professionali che offrono notevoli e variegate opportunità anche a chi ha cominciato con un tirocinio. Niente più «vicoli ciechi», dunque. Continuare a pensarla in questi termini produce seri problemi. Il più classico è quello di indirizzare talenti e capacità che sarebbero meglio spesi in una formazione professionale verso orizzonti universitari «tradizionali» in cui si annacquano e disperdono. Producendo sovente laureati frustrati, incerti sulle proprie inclinazioni e per i quali trovare una collocazione definita diventa poi difficile.
Non si tratta, sia ben chiaro, di sminuire la via degli studi in favore della formazione professionale. Si tratta di indirizzare le nuove generazioni verso i vari sbocchi offerti dai diversi percorsi formativi sulla base di interessi, attitudini, potenzialità ecc. E non di pregiudizi. O di schemi ideologici duri a morire.
È pregiudizio quello che vuole la via degli studi sempre «più nobile» e valorizzante in termini di status sociale e di remunerazione rispetto a quella che porta a un «mestiere». In parte è ancora così. Sarrebbe ingenuo negarlo. Ma certe tendenze riconoscibili e soprattutto molte storie personali mostrano quanto la musica sia cambiata nel corso degli ultimi decenni. È schema ideologico quello che ritiene basti avviare sulla strada degli studi accademici tradizionali il maggior numero possibile di giovani per edificare così una «società migliore» in quanto più «egualitaria verso l’alto». Nei fatti il risultato è l’opposto. E i meccanismi selettivi che si sono elusi prima agiscono in ritardo, ributtando indietro gente che avrebbe potuto e dovuto fare scelte diverse in precedenza, con beneficio per sé stessa e per tutti. Come meravigliarsi poi che costoro finiscano con l’alimentare la schiera degli «studenti di professione», incapaci di uscire dall’unico sistema che conoscono, a ulteriore, drammatica conferma della validità della teoria del mio vecchio professore? E questo mentre non pochi mestieri – che oggi sono sovente assai più complessi e raffinati e quindi qualificati di quel che erano un tempo – faticano a rinnovare le proprie leve e devono attingere a risorse umane che vengono da fuori, alimentando poi le tensioni che ben conosciamo.
La mia non è una semplice perorazione in favore della formazione professionale, figlia di quella visione romantica che si incontra talvolta, fondata sulla valorizzazione semplicistica dei «pratici» contro i «teorici». Nasce dalla convinzione, sorretta da molti dati di fatto, che proprio questa vecchia dicotomia è oggi largamente superata. In una società complessa i percorsi formativi non possono più essere visti come due o tre «assi» (come in grandi «cammini» medievali). Sono un reticolo di strade, piste, collegamenti e passerelle in cui è forse meno facile orientarsi, ma che moltiplicano le opportunità. Almeno per chi sa coglierle con intelligenza. E soprattutto con mente libera da stereotipi obsoleti.
Chi lo capisce ne trae vantaggio. Chi si ostina a non capirlo rischia, per davvero, di infilarsi in un vicolo cieco. Poco importa se con l’apparenza di un’autostrada.
Articolo Corriere del Ticino, 8 luglio 2011
di Giancarlo Dillena, Direttore