L’aver cancellato la parola stessa di «Umanesimo» è all’origine dell’attuale rottura del legame tra insegnamento ed educazione che ormai consideriamo due attività scollate e incomunicabili. Fino a parlare, per esempio, di un servizio educativo autonomo da affiancare agli insegnanti. Nella tradizione umanistica invece l’insegnamento (la trasmissione del sapere e della cultura) aveva di per se stesso una valenza pedagogica. E forse proprio a causa del nostro odierno disinteresse culturale ci siamo ridotti a non sapere neppure più educare. Il mancato riconoscimento del valore formativo del sapere nuoce sia alla cultura che all’educazione. Nuoce alla cultura che, abdicando ad ogni funzione formativa, si riduce a feticcio o pretesto per suscitare effimere emozioni in eventi di massa. E nuoce all’educazione perché induce l’individuo a trascurare la propria formazione interiore. Noi abbiamo infatti dimenticato quello che gli umanisti davano per scontato. E, cioè, l’importanza che può assumere la vera cultura nel determinare una formazione di base solida e permanente. E soprattutto unitaria: perché l’educazione per risultare efficace dev’essere una e indivisibile. Va declinata al singolare. Non al plurale: come si è fatto favorendo l’andazzo a promuovere oggi l’educazione alla conoscenza dell’altro, domani quella alla legalità, dopodomani quella alla pace e così via. Pedagogia al plurale che scivola facilmente in prediche ideologiche, toglie tanto tempo all’insegnamento vero e proprio e produce un effetto che dura lo spazio di una lezione.
Soltanto coloro che ritengono inservibili, ai fini dell’educazione, i contenuti culturali possono perciò scandalizzarsi se si propone che il docente deve tornare a dedicarsi esclusivamente a insegnare senza essere oberato, se non molto limitatamente, da altre mansioni per quanto benemerite esse possano risultare. La ritengono una pretesa corporativa, e quindi egoistica, di casta. Sembra loro che così sminuiamo, impoveriamo e mortifichiamo il ruolo del docente. Al contrario: è la specifica mansione dell’insegnare ad essere stata minimizzata e snobbata. E che occorre perciò rivalutare con sapienza umanistica riportandola, come si dice, al suo antico splendore.
La didattica a sua volta è scaduta in didatticismo. E, cioè, da mezzo si è trasformata in fine inducendo a focalizzare tutta l’attenzione sul «come» insegnare a grave discapito del «cosa» insegnare. Il «cosa» insegnare si è fatto perciò sempre più incerto e fumoso contribuendo ad accrescere, anziché ridurre, le difficoltà dell’alunno nel campo del «cosa» imparare, quindi le sue lacune linguistiche e culturali. Come osserva Liliane Lurçat, si è approdati a ritenere del tutto erroneamente che «ci si deve accontentare di trasmettere dei metodi e non dei saperi». La quale Lurçat aggiunge: «Ma si può imparare ad apprendere senza imparare veramente qualcosa? Questo tipo di discorso fumoso maschera, in realtà, la massiccia distruzione degli insegnamenti».
Il didatticismo è controproducente sul piano culturale anche perché si dedica con furia diseducativa a sbarazzare la strada dell’apprendimento da tutti gli ostacoli senza distinzione di sorta: non solo da quelli inopportuni o dannosi, ma anche da quelli opportuni o giovevoli e quindi didatticamente, oltre che educativamente, provvidenziali. Lo mostra lo scienziato Massimo Piattelli Palmarini ricordando un esempio famoso a questo proposito. «Il caso della matematica è esemplare. Dopo aver tentato di tutto per renderla più accessibile e intuitiva, compresa la sciagurata riforma chiamata New Math, nella quale tutto si basava sulle nozioni (supposte) elementari dell’insiemistica, e dopo aver introdotto nella classe di matematica bilancette, palloni gonfiabili, forbici e cartone (la tanto incensata manualità), si è dovuto constatare che i risultati erano modesti. Allora si pensò di espellere completamente le operazioni aritmetiche e far leva sulle calcolatrici tascabili. Ne uscivano ragazzi schiavi dell’elettronica e incapaci di ragionare in astratto».
C’è però un motivo di fondo per cui in ambito scolastico si sono moltiplicate iniziative e attività che poco o nulla hanno a che vedere con l’insegnamento vero e proprio: l’errata convinzione di stampo assistenzialistico che la scuola sotto il profilo educativo debba «sostituire» la famiglia (i genitori in ogni possibile senso). Mentre dovrebbe esserle soltanto «complementare», come insegnano i maestri del pensiero liberaldemocratico. Al docente compete propriamente educare attraverso il suo ruolo d’insegnante. E in rapporto a esso. Sono invece, come sappiamo, i falsi profeti delle ideologie totalitarie a pretendere che lo Stato spossessi la famiglia del ruolo educativo per esercitarlo al suo posto.
Articolo nel Corriere del Ticino
del 16.06.2010
di Giuseppe Laperchia, docente