«La maggior parte di questi giovani è (…) puntualmente abbandonata a sé stessa, al fai-da-te e alle soluzioni di ripiego; delusi, smarriti, amareggiati e depressi, essi sono spesso vittime innocenti di atteggiamenti stigmatizzanti e pesantemente penalizzanti. Un vero e proprio percorso di sofferenza per loro e per le loro famiglie, dapprima; per la comunità e la società poi». È un passaggio dell’opinione del dr. Orlando Del Don sul «Corriere» del 23 aprile. Constatazioni che un professionista serio ha il diritto-dovere di far conoscere a ragion veduta; esse mi hanno particolarmente colpito, perché corrispondono sostanzialmente a timori già presenti vent’anni fa, ignorati da un Dipartimento proiettato acriticamente per consolidare storiche, inarrestabili e ideologiche riforme. Criticarne gli esiti nel 2010 equivale ad alterare la bile per parecchi giorni a Francesco Vanetta, il quale ritiene che si sia persa «un’occasione per dare una mano alla nostra scuola per crescere». In questa diatriba non metterei il becco se addirittura al 1989 non risalisse un antefatto che mi induce a rinfrescare i ricordi a Vanetta. Egli era allora alla testa dell’Ufficio studi e ricerche e comprese bene gli interrogativi di un grosso fascicolo in cui il sottoscritto volle illustrare con statistiche i fenomeni negativi che iniziavano a verificarsi dopo la scuola media: battute d’arresto, improduttive ripetizioni di classi, cambi di curricolo e abbandoni. Non è forse lui che diede poi il via a un mostruoso approfondimento durato quindici anni, totalmente avulso dai veri problemi scolastici dei quindicenni, con lo scopo di togliere da essi l’attenzione e concentrarla su aspetti sociologici? Ci furono momenti in cui il DECS (già DIC e già DPE) materializzava alla grande il bisogno di autoassolversi. Da un lato riconosceva (ci mancherebbe!) che i giovani hanno pregi e difetti, ma, invece di chinarsi sulla necessità di correggere derive di orientamento, si limitava a sbandierare al colto e all’inclita il frutto di profondissimi studi (veri tomi, ed è forse per questo che si riuscirebbe a dar loro solo… un’occhiata secondo la visione minimalista di Vanetta). Insomma ciò che conta è esorcizzare la tentazione di credere che la nostra scuola sia ridotta a un colabrodo, altrimenti non lo si direbbe con una tale frequenza.
E soprattutto, mai parlarne a viva voce: basta rivolgersi al funzionario competente, perché altrimenti l’approccio «delegittima la professionalità, l’impegno e la sensibilità educativa di intere categorie, come per esempio quella degli insegnanti». E ancora: non «sparare nel mucchio», come se sollevare argomenti pedagogici e didattici in pubblico (l’ho fatto anch’io in circa sessanta articoli) fosse assimilabile a un delitto di lesa maestà. Ci viene proprio da ridere se pensiamo a tutti quegli «organismi e momenti istituzionali» con i quali si pretende di consentire a chi è fuori di esprimersi e portare critiche e suggerimenti. Se al DECS sopravvive qualche essere umano intenzionato a far mente locale sui temi legati al sapere non effimero, alla formazione e a tutti gli aspetti afferenti, vorrei proprio invitarlo anch’io a riflettere seriamente sul modo di elargire educazione e conoscenza ai nostri studenti. È un’esigenza fondamentale, tutt’altro che una proposta generica. Se Vanetta ritiene che si debba formulare in modo più specifico, nessuno gli negherà il diritto e il dovere di indicare chiaramente come vadano insegnate le materie scolastiche ai ragazzi di oggi, con quali basi e quali progressioni, con quali risultati da ottenere alla fine. E gli saremo grati se saprà spendere qualche parola positiva soprattutto sul buon comportamento, troppo dispiacendoci quel voler intervenire solo quando i bovi non sono più pii come pretendeva il Carducci. Ma disgraziatamente temo che ancora una volta non si farà nulla. A dispetto della buona volontà dei docenti che subiscono, la nostra scuola assomiglia sempre più a un cadavere burocratico. Mi scuso naturalmente per l’immagine necrologica, ma quando un’istituzione che dovrebbe formare la gioventù continua a rimanere abbarbicata a idee che l’hanno culturalmente demolita, quando si emarginano correnti di pensiero invise a chi è intenzionato a perpetuare una propria linea sociopedagogica, quando la fisionomia autonoma della scuola si spinge fino a ignorare che fuori da essa e dopo si sono create delle ipoteche morali e materiali sulle quali gli anni di insegnamento incidono profondamente, vi è poco da sperare.
Con queste direttive il lumicino è lontano anni luce, e tale rimarrà fino a quando prevarranno le scartoffie.
Lettera al Corriere del Ticino
del 17.05.2010
di Franco Cavallero, Lugano